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La Puglia non vuole il gasdotto TAP, ma ci serve

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Il gasdotto TAP è prepotentemente tornato agli onori delle cronache a causa delle recenti proteste di alcuni comitati di oppositori alla costruzione dell’opera, complice anche la delusione per l’ondivago atteggiamento di forze politiche che avevano, quanto meno in campagna elettorale, promesso di bloccare i lavori.

Ma si tratta di proteste giuste? Cos’è il progetto TAP e perché la Puglia non lo vuole? Vediamo nel dettaglio quali sono le ragioni delle parti in campo e, più in particolare, quali sono i costi e benefici di quest’opera e il motivo per cui bisogna considerarne strategico il completamento.

Che cos’è il TAP?

TAP è l’acronico di Trans-Adriatic Pipeline, e cioè di gasdotto trans-adriatico: si tratta del progetto alla base della costruzione di un’infrastruttura che, partendo dall’Azerbaigian e attraversando l’Europa orientale (Mar Nero, Balcani e Grecia) giungerà sulle coste della Puglia, come meta finale. In particolare, le zone coinvolte sono le coste di San Foca e il territorio del comune di Melendugno, entrambe in provincia di Lecce.

Si tratta di un progetto al centro di ovvi interessi internazionali, classificato dall’Unione Europea tra i Progetti di Interesse Comune e sostenuto anche dagli Stati Uniti per ragioni di carattere strategico-economico: infatti, la realizzazione del gasdotto permetterà all’Europa (e, in primis, all’Italia) di disporre di una diversa fonte di approvvigionamento del gas, aumentando l’indipendenza dal suo più grande fornitore attuale, la Russia.

Dal punto di vista strutturale, il TAP individua unicamente il tratto che attraversa l’Adriatico provenendo dalle coste balcaniche per giungere in Puglia, ma, come anticipato, si tratta di un progetto molto più ampio, denominato Corridoio Sud del Gas.

Questa via della materia prima, parte dal giacimento di Shah Deniz, sul Mar Caspio e attraversa una prima rete di gasdotto (il SCP – South Caucasus Pipeline, che coinvolge le regioni caucasiche fino in Turchia), per poi attraversare la regione anatolica (con il TAP – Trans Anatolian Pipeline) e, infine, la regione egea e adriatica (coinvolgendo con il nostro TAP Grecia, Albania e Italia).

In particolare, il gasdotto adriatico partirà dall’Albania e giungerà a San Foca, proseguendo fino a Brindisi (per un percorso totale di 870 chilometri): qui, invece, avverrà la sua immissione nella rete Snam.

L’obiettivo è ovviamente non tanto quello di far arrivare il gas in Italia, quanto di costituire nel nostro Paese la base di partenza del gas verso tutta Europa: la materia prima così importata in Puglia, infatti, verrà immessa sulla rete di distribuzione nazionale e, da qui, potrà arrivare ai diversi punti di interconnessione con l’estero (Francia, Svizzera, Austria, e così via) e da qui verso gli altri paesi europei.

Il progetto TAP

Ovviamente, dell’intero Corridoio Sud del Gas, la parte che interessa maggiormente l’Italia è rappresentata principalmente dalla condotta sottomarina (il tratto offshore di circa 45 chilometri che andrà sul fondale dell’Adriatico), dalla condotta interrata (il tratto onshore di circa 8,2 chilometri) e il Terminale di ricezione, a Melendugno.
Ma quando è stato avviato l’intero progetto e quando l’Italia ha prestato il proprio assenso?

In particolare, i primi studi di fattibilità dell’intera opera risalgono al triennio 2003-2006, mentre le prime Intese tra i paesi coinvolti (Italia, Grecia e Albania) risalgono al 2013. Il progetto è stato affidato all’azienda svizzera Egl (che ha nel frattempo cambiato denominazione in Axpo).
Dalla firma di questa intesa, trattandosi di un accordo internazionale multilaterale, deriva naturalmente l’obbligo di non modificare, limitare o revocare unilateralmente l’obbligo assunto unanimemente dalle parti.

La gran parte dei finanziamenti per la realizzazione dell’opera è derivata dai privati, in particolare dalle aziende di vendita dell’energia che operano in Italia e negli altri paesi interessati (tra cui si segnalano Enel -è possibile contattare Enel in merito-, Hera, Shell, Gdf Suez, Depa): queste aziende il 17 dicembre 2013 hanno firmato un contratto di fornitura con il consorzio azero che si occupa dell’estrazione del gas dal suo giacimento e per l’approvvigionamento, lungo il corso delle infrastrutture da realizzarsi, fino in Italia.

Ne deriva che queste imprese hanno già impegnato i propri capitali non solo nella realizzazione delle opere, ma anche nell’acquisto della materia prima che dovrà attraversare i gasdotti.
Peraltro, nel finanziamento del progetto è intervenuto anche il supporto della Bei e della Bers (rispettivamente la Banca europea per gli Investimenti e la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo), atteso che la realizzazione della TAP è stata qualificata come Progetto di Interesse Comune.

Dal punto di vista politico, nel settembre 2014 l’allora Ministro dell’Ambiente Galletti ha firmato i decreti Via (la compatibilità ambientale), individuando, contro il parere negativo della Regione Puglia e del Ministro dei Beni culturali, in San Foca il luogo migliore per l’approdo del gasdotto.

Lo stato dei lavori e lo scontro istituzionale

Terminati i principali passaggi burocratici, i lavori sono stati avviati ufficialmente nel 2015 in Albania, mentre in Italia solo nel maggio 2016, dopo l’ulteriore approvazione del MEF. Sono proseguiti sostanzialmente bilateralmente, al punto che ad agosto 2018, l’opera risulta completata per il 75%.

Secondo le stime, i lavori per l’avvio del microtunnel sottomarino sarebbero dovuti iniziare a settembre 2018 e durare non più di 120 giorni, con un completamento entro il 2020.
Tuttavia, a quel punto in poi sono iniziati i problemi giudiziari: infatti, ad aprile 2018 la Procura di Lecce ha sequestrato una parte del cantiere (il Cluster 5), ritenendo l’esistenza di una violazione rispetto alle norme prescritte dalla Valutazione di Impatto Ambientale.

A queste problematiche strettamente legali si sono aggiunti i contrasti che hanno visto, da un lato, la Regione e gli Enti locali schierati rispetto al No TAP e, dall’altro, salvo qualche ondeggiamento poi sostanzialmente smentito, il Governo.
Le comunità locali, in particolare, si sono rese protagoniste di diverse manifestazioni contro il completamento dell’opera.

Nelle ultime settimane lo scontento a Melendugno e San Foca ha raggiunto vertici inimmaginabili fino a poco tempo fa. Picchetti e presidi pacifici stanno attualmente contestando i lavori di messa a fondo operati dalla Adhemar de Saint Venant, nave che dal 30 ottobre si aggira a largo delle coste pugliesi per provvedere all’installazione delle palancole sul fondale che dovranno impedire ai sedimenti mossi dai prossimi lavori di non disperdersi eccessivamente nelle acque.

Ma si tratta soltanto di una delle più recenti prese di posizione della popolazione dei luoghi, capeggiata da esponenti politici locali, come il sindaco di San Foca, che nei giorni scorsi ha condotto un presidio in località Masseria del Capitano, luogo in cui dovrebbe arrivare il terminale di ricezione del grande progetto TAP.

Il movimento No TAP, insomma, ritiene che la battaglia sia ancora aperta e continua a sostenere le proprie ragioni. Tra tutte c’è sicuramente la preoccupazione delle popolazioni che abitano nei pressi del futuro terminale di ricezione di possibili incidenti, problemi ambientali, costi insostenibili anche in termini di salute umana. Ma quanto c’è di vero in tutto questo?

Sinteticamente, le ragioni dei No TAP sono le seguenti:

  • criticità di carattere ambientale, rispetto allo sradicamento degli ulivi necessario per la prosecuzione dei lavori ambientali;
  • pericolosità del progetto dal punto di vista delle possibili fughe di gas o altri rischi che possano minacciare attività essenziali della regione, come l’agricoltura e il turismo;
  • mancata applicazione delle norme sulla prevenzione dei rischi industriali (la cd. direttiva Seveso).

Perché la TAP ci serve?

Tra gli argomenti che si utilizzano più spesso a sostegno dell’opera c’è il costo già sostenuto dalle imprese e dalle autorità pubbliche per la realizzazione del progetto. In particolare, per il solo tratto della TAP si tratta, secondo alcune stime, di circa cinque miliardi di dollari.
Senza contare il mancato indotto che deriverebbe dal blocco dell’opera: si stima, infatti, che il progetto ultimato potrebbe trasportare fino a dieci miliardi di metri cubi di gas all’anno (con un possibile raddoppio).

Senza contare, ancora, che il costo complessivo dell’intero corridoio si aggira in circa quaranta miliardi di dollari, e verrebbe in buona parte vanificato se l’intera infrastruttura non dovesse raggiungere l’Italia, dal momento che né la Turchia, né la Grecia (e tanto meno l’Albania), dispongono di risorse e infrastrutture tali da poter acquistare materia prima a sufficienza per ripagare e rendere utile l’intero costo dell’opera.

Smentite, invece, le voci di costi addebitati allo Stato, con penali stimate in venti miliardi di euro, dal momento che lo Stato non è parte in causa nella costruzione dell’opera: al più, al contribuente potrebbero essere addebitate le possibili conseguenze di un risarcimento danni, intentate dalle aziende che ci hanno rimesso a causa del blocco dell’opera.

Da quanto abbiamo detto, bloccare la TAP per non meglio dimostrate ragioni di carattere ambientale, a fronte dei costi spropositati già impiegati, appare assurdo.
Infatti, dal punto di vista delle ragioni ostative basate sui problemi di carattere ambientale, gli studi compiuti dalle commissioni ministeriali avvicendatesi negli ultimi anni, non hanno evidenziato alcun profilo significativo e, nel dubbio, le attestazioni di carattere scientifico di tali organismi dovrebbero essere preferite senz’altro alle rimostranze dei comitati di cittadini locali.

Peraltro, in Italia esistono già punti di importazione simili a quelli che verrebbero realizzati con la TAP: si tratta dei punti di Passo Gries e Tarvisio nel Nord, ma soprattutto di Gela e Mazara del Vallo, che costituiscono hub di importazione di altrettanti gasdotti sottomarini provenienti dall’Africa del Nord (e per distanze molto più rilevanti di quella della linea adriatica), esistenti da decine di anni e senza che in nessun caso si sia mai verificato alcun incidente degno di nota.

Ma, in verità, esistono molte altre ragioni che potrebbero spingere a valutare benevolmente l’ultimazione del gasdotto adriatico, tra le quali:

  • il foraggiamento dei consumi interni;
  • l’obiettivo strategico di rendere l’Italia un hub alternativo di esportazione in Europa;
  • la costruzione di un’alternativa alle possibili difficoltà di sviluppo delle fonti rinnovabili;

Quanto al primo aspetto, non bisogna dimenticare che l’Italia è il paese maggiormente esposto alle oscillazioni nel costo della materia prima, vista la sua cronica dipendenza dalle importazioni. La creazione di una linea alternativa di approvvigionamento (utile a rendere indipendente le forniture che passano dall’Europa Orientale), oltre ad essere strategica da un punto di vista geopolitico, risponde anche ad un obiettivo di riduzione dei prezzi.

Di pari passo, anche se da un’ottica inversa, si pone il secondo aspetto: rendere l’Italia meno dipendente dalle importazioni russe, infatti, può favorire le aziende di vendita interne, che potranno agire in condizione di maggiore concorrenza con i colossi europei dell’energia, proponendo l’Italia come paese esportatore (anche se di seconda mano).

Infine, sebbene sia auspicabile una progressiva riduzione della dipendenza da fonti fossili, possibili scenari di mancato o più lento sviluppo delle fonti rinnovabili, rendono in proiezione il gas ancora una fonte rifugio fondamentale: omettere di considerare tale aspetto può rivelarsi incosciente nelle prospettive di medio e lungo periodo, per quella che rimane la settima potenza al mondo.

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